PRIMA DI TUTTO EDUCATORI - raccolta di saggi brevi
di felice magnani
CHE TIPO DI ESEMPIO SIAMO?
Un paese che si ama ogni tanto deve fare un esame di coscienza e capire se veramente quello che succede corrisponde alla volontà di chi si predispone ad apprendere. Che tipo di esempio siamo? E’ una bella domanda, ma bisogna avere il coraggio di porsela e di porsela con l’intenzione di capire esattamente come stanno le cose, se quello che abbiamo detto e promesso corrisponde alle attese. Non è facile esaminarsi ed esaminare, non è facile trovare gli errori e riconoscerli come tali, ma è il primo passo per modificare in meglio il nostro modo di fare, per capire se quello che stiamo facendo corrisponde, ha quella logica attuativa per cui ci eravamo impegnati all’inizio del viaggio. Le società, tutte le società, quando entrano in crisi, hanno bisogno di esempi, di cittadini che nonostante tutto siano capaci di essere coerenti con i propri valori e con quelli che stanno visibilmente scritti sui libri di storia. Se siamo degli esempi è molto difficile dirlo, perché quella che stiamo vivendo è una delle fasi storiche più confuse e disorientanti di questi ultimi anni, una fase in cui le parole, i pensieri e le azioni hanno un valore temporaneo, oggi sono così, ma domani potrebbero essere il contrario, i significati stessi delle parole cambiano continuamente la loro veste semantica, si tingono di colori e sfumature diversi a seconda di come vengono usati. Nell’epoca degli slogan e delle sparate non è per nulla semplice immaginare di capire realmente da che parte stia di casa la verità. Ma esistono ancora delle verità? E i dogmi che fine hanno fatto? Il problema vero è che manca una coscienza critica, per cui nella maggior parte dei casi non esistono risposte adeguate, tutto resta nel limbo, in attesa che il linguaggio torni a essere comprensibile, pacato, corretto e sereno e che i suoi sostenitori la smettano di depistarlo con l’intromissione di anglicismi di cui nessuno, dico nessuno conosce il significato. Chi parla in televisione dovrebbe smetterla di infarcire la lingua italiana di lingue straniere, dando per scontato che chi ascolta capisca, abbia studiato le lingue straniere o abbia frequentato l’università. Nella maggior parte dei casi la lingua resta lo strumento principe di tutto il nostro sistema relazionale, l’unico in grado di mantenere un minimo di unità, l’unico a far sentire gli italiani veramente italiani. Anche nel campo linguistico l’esempio giova alla valorizzazione di un paese che ha avuto nella lingua latina un formidabile strumento culturale, giova perché sottolinea che gl’italiani sanno sì posizionarsi nel mondo, ma lo fanno senza abdicare alla straordinaria bellezza di quei valori umani, sociali, culturali e religiosi che li hanno sempre contraddistinti non solo nella storia nazionale, ma anche in quella europea e mondiale. Di esempi nel passato ne abbiamo avuti parecchi in tutti i campi, anche in quello religioso, dove la cultura ha sempre giocato un ruolo fondamentale e gli esempi sono stati all’avanguardia. C’è stato un tempo in cui era facile incontrare lo sguardo di chi credeva veramente nella versione taumaturgica della santità e te la faceva apprezzare non solo con l’aiuto di testi o racconti, ma con l’esempio, dimostrando sul campo che la virtù è difficile da realizzare, ma è pur sempre possibile. In molti casi si faceva anche strada un certo spirito di emulazione, la voglia di essere anche solo in parte come gli “eroi” di cui avevamo sentito parlare a scuola, in famiglia, a catechismo, dove la Bibbia, il Vangelo e le vite dei santi avevano una parte fondamentale. Nell’insegnamento c’è il segreto dell’accoglienza, chi narra e narra col cuore, entrando nelle viscere dell’accoglienza, crea quella condizione di pathos che genera emozione, studio, contemplazione, riflessione e che aiuta l’animo umano a conoscere qualcosa di più della propria esistenza. Nell’educazione tradizionale, quella confermata dalla voce suadente di maestri della trasmissione orale, la concretezza era all’ordine del giorno, l’eroe era colui che credeva nella vita fino al sacrificio, chi viveva quotidianamente accanto ai problemi per risolverli senza piangersi addosso. Meno filosofia, ma predisposizione assoluta al fare, al creare, quasi una forma di sopravvivenza dentro la quale usciva il carattere vero della condizione umana, mai vittima, mai depressa, mai rinunciataria, ma sempre pronta a lottare, a dimostrare sul campo quanto fosse importante darsi da fare per risolvere i problemi. Gli esempi che raggiungevano più celermente il livello emozionale individuale erano quelli legati alla volontà, a chi si impegnava con continuità e determinazione negl’impegni della vita, senza lasciarsi abbindolare dalle cose superflue, incapaci di generare felicità. L’esempio vero della felicità rientrava nella serietà con cui tutti i membri della famiglia compivano il loro dovere, collaboravano uniti per migliorare le condizioni dei componenti. Di solito l’esempio primario era il papà. Secondo la mamma il papà aveva un ruolo guida sul piano dell’impronta educativa, era quello che sapeva riconoscere gli errori e che aveva la capacità di indirizzare con fermezza verso una più attenta presa di coscienza. Al padre era delegata la disciplina nella sua versione decisionale, quella che metteva di fronte alla scelta: prendere o lasciare. Il padre era la fermezza, la madre la dolcezza, all’uno era delegato il dovere, all’altra la capacità di trasformare l’imperativo categorico in convinzione democratica. Papà e mamma era due esempi altrettanto importanti, con ruoli diversi ma complementari, con un fondamentale carico educativo da distribuire in modo adeguato. La forza lavoro del padre era un esempio, bisognava imparare a lottare con la stessa determinazione, coscienti che il lavoro, una volta ottenuto, bisogna confermarlo e soprattutto rafforzarlo, ma contemporaneamente era fondamentale capire il ruolo educativo di una madre, sempre molto attenta a orientare il cammino quotidiano dei figli, nei labirinti della vita quotidiana. Poi c’era altri esempi, quello del sacerdote attento a farti amare il vangelo di Gesù nella prassi quotidiana, con piccoli atti o azioni capaci di dare un senso al vivere cristiano. Un rinuncia, una raccomandazione, un breve racconto, una predica ferma ma accogliente, un gesto caritatevole, una parola di conforto, un aiuto dato a un anziano in difficoltà, erano parti fondamentali di un racconto religioso che diventava straordinariamente umano, capace di far riflettere, di sdoganare la voce del cuore e quella dell’anima. Sacerdoti capaci di generare, di produrre, di dimostrare, di essere attenti alla crescita educativa delle giovani generazioni. Poi c’erano quegli esempi raccolti per strada, forniti da uomini e donne attenti a svolgere con grande amore e attenzione il proprio destino, con segni tangibili di aristocratica convivenza. Tornare a essere esempi significa dimostrare prima di parlare, essere convinti che l’educazione abbia dei passaggi fondamentali dentro la costruzione di un sistema educativo comunitario, riconoscere gli errori e le difficoltà, impegnarsi sia nella fase individuale sia in quella collettiva, per trovare insieme risposte adeguate. Oggi è tempo di progetti educativi, è tempo di educatori che sappiano incontrarsi e unire le loro esperienze e le loro capacità culturali, è tempo di dare un volto comunitario all’impegno amministrativo, aprendo gli occhi sulla realtà, con la convinzione di essere in una grande famiglia che ha bisogno di tutti, è tempo di lasciare da parte il buonismo ipocrita, l’omertà che tiene prigionieri, è tempo di essere veri, di affrontare con determinazione i problemi che si accumulano e che rendono invivibili i nostri paesi e le nostre città. Il mondo ha bisogno di chiarezza, la ruffianeria e l’egoismo non servono a nulla, se non a peggiorare una situazione già di per sé piuttosto avariata. Chi esercita il potere in nome del popolo italiano deve convincersi di dover esserne all’altezza e soprattutto deve lavorare per dare risposte concrete ai problemi che ci troviamo di fronte, deve lavorare con grande impegno per far capire che la vita è un dono prezioso, una cosa seria, che merita un grandissimo rispetto e che, proprio per questo, va difesa da chi vorrebbe lasciarla sopravvivere sui gradini delle stazioni o nei parchi delle grandi città. La vita deve essere vita sempre, deve essere un esempio per chi vive quotidianamente uno stato di servile subalternità al potere di turno.
DI SCUOLA NON SI PARLA MAI ABBASTANZA
Di scuola non si parla mai abbastanza, resta comunque il vero punto di partenza di una nazione che ha voglia di cambiar pelle, di dimostrare che dall’istruzione e dalla cultura possono arrivare i suggerimenti migliori per rimettere le cose a posto. Parlare di scuola significa parlare dei nostri figli, dei nostri educatori, dei nostri insegnanti, del passato e del presente, significa soprattutto riflettere sulla nostra condizione umana per cercare di migliorarla partendo dalle nuove generazioni, alle quali affideremo il nostro presente e soprattutto il nostro futuro. Con la scuola meno insulti, meno guerre, meno odi e meno rancori, meno arrivismi e meno presunzioni, più attenzione per quel mondo giovane che ci passa accanto ogni giorno con la speranza di trovare quella comprensione e quella fermezza di cui ha fortemente bisogno. La scuola è un viaggio lungo, a tratti faticoso, ma sempre pieno di straordinarie sorprese come l’amicizia, la solidarietà, la buona competizione, la socialità, l’incontro con l’arte, con la storia, con la musica, con le lettere, con le lingue, con l’educazione civica, la matematica, con quel desiderio di dialogo che contraddistingue la socialità del genere umano. Quando inizia la scuola è come se il mondo si rendesse conto all’improvviso di voler essere diverso, più giovane, più attento, più capace di capire e di ragionare. Nella voce degl’insegnanti c’è molto dell’empatia umana, della voglia di conoscere, di rendersi conto di cosa sia la vita, di quale scopo abbia, di cosa si possa fare per viverla al meglio, senza cadere nelle trappole del qualunquismo e della superficialità. L’inizio della scuola apre il cuore e la mente alla possibilità di un viaggio bellissimo alla conquista di quella parte di se stessi che giace silente nelle profondità di una natura umana che sa sorprendere, incantare, sollecitare, umanizzare, amare, una natura che non è mai quella che abbiamo lasciato, ma quella che attende, che si aspetta uno slancio nuovo e deciso, capace di abbandonare la strada del pregiudizio e dell’individualismo. Iniziare la scuola è partire per un viaggio, convinti che diventerà importante per la nostra crescita umana, morale, culturale, sociale, politica e religiosa. Nella convinzione individuale, nella presa di coscienza di ciascuno, s’innesta la capacità di chi ha il compito di orientare, di entrare nell’animo umano per convincerlo che lo stile può essere anche un altro, più adatto, più utile, più interessante, più umanamente capace di migliorare il nostro modo di essere, l’approccio con la realtà, con quelle persone con le quali avremo il compito di costruire e di creare una parte fondamentale della nostra esistenza. L’inizio della scuola è un grande momento per la famiglia, nella scuola infatti trova la sua giusta sussidiarietà, la misura necessaria per armonizzare il proprio ruolo e la propria attività, il senso vero e profondo di un sistema educativo in cui ciascuno gioca la propria parte, convinto che facendola bene tutto potrà essere migliore. Nella scuola s’impara a capire quale potrebbe essere la strada da percorrere, chi siamo e cosa vogliamo, quali ricchezze possediamo e quali dobbiamo ricercare o forse ricreare, quali strategie dobbiamo apprendere per realizzare appieno la ricchezza che abbiamo dentro. Orientare è fondamentale, far capire da quale parte entri la luce e che cosa si debba fare perché possa illuminare con forza il nostro cammino fa parte della forza dell’educatore, della sua capacità di entrare in contatto con l’anima umana, di risvegliarla, di posizionarla in modo tale che possa comprendere meglio che tipo di rapporto esista veramente tra sé e la realtà con la quale il sé viene a contatto. Nell’inizio c’è sempre una paura, forse l’idea di poter perdere una parte di quella libertà che si pensa infinita, intoccabile, quasi fosse un bene esclusivo e personale, privo di regole e di limiti, c’è il senso di un infinito che corre alla ricerca di una dimensione in cui si possa definire meglio il proprio essere e la propria storia. La scuola dà il senso della misura, induce alla riflessione, al silenzio, alimenta la voglia di ascoltare, di chiedere, di confrontarsi, di uscire dalle chiusure per incontrare la libertà quella vera, che nasce dalla convinzione che una regola sia fondamentale per definire meglio un’armonia, un equilibrio, un modo di essere più umano. Con la scuola si viaggia verso quel futuro di cui i giovani diventeranno, un giorno, artefici e garanti. Parlare di scuola significa entrare nel mondo nuovo, quello che vedono per la prima volta quei giovani su cui appoggiamo le nostre risorse e le nostre speranze, è in questa direzione che si pone il problema di essere coerenti, convincenti, attenti, prudenti, ma fermi nel trasmettere le verità utili e necessarie, quelle che aprono senza reprimere, che alimentano senza spegnere, che fanno capire come si possano orientare le ricchezze di cui madre natura ci ha dotato. In una società spesso mummificata nelle diatribe politiche e finanziarie, dai giochi di potere e di palazzo, da varie forme di individualismo estremo, la voce della scuola richiama al realismo, all’importanza di quel mondo che sta dentro di noi, alla bellezza di una cultura che si anima di conoscenza, di voglia di essere e di scoprire, di andare alla ricerca delle nostre origini, di quella storia di cui siamo in parte figli e dentro la quale siamo chiamati a dare il nostro contributo quotidiano. L’inizio della scuola è una rinascita, uno sprone a vivere con più decisione e forza l’impegno che ci aspetta, è una ventata di ossigeno che rimuove il peso delle negatività, riaprendo l’anima a un respiro nuovo, fatto di freschezza e di speranza, di voglia di essere responsabili di un mondo che ci osserva e ci scruta con attenzione per capire come ci si debba comportare. Parlare di scuola significa riprendere in mano il filo della vita, restituendo alle cose che contano la loro identità, aprendo di nuovo quel mondo dei valori umani che spesso dimentichiamo sotto lo zerbino di casa nostra.
UN PO’ DI TRASCENDENZA
E’ avvilente vedere e sentire che diventa sempre più difficile educare, che i giovani sono diventati ostaggio di una tecnologia irriguardosa e assolutizzante, di un progresso che apre da una parte e chiude dall’altra, quando il mondo in cui viviamo è uno straordinario serbatoio di ricchezze che aspettano solo di essere risvegliate e sollecitate per entrare con forza nell’evoluzione umana. Forse l’educatore non sa più scandagliare, investigare, non sa più sottoporsi all’esame di una coscienza critica attenta, capace di mettersi in relazione con quella espressività sociale di cui il mondo giovanile è un’autentica rappresentanza. Forse basta poco per ritrovare il filo, basta magari rimettere in moto un approccio, affidando l’intermediazione a quel Gesù di Nazareth di cui ci siamo dimenticati, ma che ci è stato di grande aiuto nel ricomporre quel sofisticato sistema relazionale che è stato il vero motore della nostra vita e della nostra storia. Oggi si parla pochissimo di trascendenza, si parla pochissimo di valori, si accetta un materialismo senza limiti, si cercano disperatamente l’assenza, l’evasione, la fuga, come se la vita non avesse più nulla da offrire, come se improvvisamente tutta la ricchezza del passato non servisse più a nulla. Eppure gli approdi che contano sono ancora tutti lì, aspettano solo che la coscienza umana li sappia riprendere. I genitori, i nonni, la famiglia, la scuola, la fatica, l’impegno, il lavoro, la cultura, la storia, la bellezza, l’arte, tutto è rimasto al suo posto, tutto è lì pronto per dimostrare che la vita ha ancora tutte le sue carte da giocare, partendo da una visione fondata sull’ orgoglio e sull’ unità, partendo dalla convinzione che nel cuore dell’umanità si giochino le carte più importanti. Finisce il tempo della dissoluzione e riprende quello dell’educazione, proprio come papa Francesco sollecita nelle sue omelie, nei suoi interventi, nei suoi appelli, riproponendo quella visione unitaria della storia che non lascia indietro nessuno e che richiama tutti a un’assunzione di nuove responsabilità, partendo dalla voce profetica di quei santi che hanno costruito con pazienza profetica il nostro passato, il nostro presente e il nostro futuro, proprio come Francesco d’Assisi. Forse c’è un mondo che si risveglia pensando di aver troppo dormito, di aver abbandonato per troppo tempo quei principi formatori e indicatori sui quali la gente semplice aveva costruito la propria vita e quella della comunità, organizzandola sui ritmi garbati della natura. E’ di questi giorni l’enunciazione del patto educativo fondato sulla collaborazione e sulla comprensione, un patto educativo globale in cui riprenda vita un nuovo umanesimo, un modo più umano e solidale di vivere l’esistenza di un pianeta lacerato dalle prevaricazioni di un mondo sempre più spesso irrispettoso e irriverente. Papa Francesco rilancia il tema educativo come base e collante di una storia dominata non dalle divisioni e dalle paure, ma dalle convergenze e dalle unioni, dalla coscienza che si possa fare meglio con un convinto impegno comune. E’ nel patto educativo che l’educazione muove i suoi passi, ricordando agli esseri umani che si parte da vicino per arrivare lontano. Coscienza, consapevolezza, senso di responsabilità, fiducia, formazione, scuola, famiglia, tutto è intimamente connesso, tutto si avvolge e si riavvolge senza tralasciare nulla, perché la forza di un pianeta sta nella presa di coscienza di chi lo abita, nella convinzione che sopravvivere si possa con la forza e l’energia di tutti. Nel momento dell’individualismo estremo papa Francesco rispolvera dunque i segreti illuminanti dell’educazione, di cui il villaggio diventa massima espressione. Nel tempo in cui il disorientamento generale alimenta viaggi senza ritorno, dalla chiesa di Roma si alza una voce autorevole, un richiamo alla nostra identità, alla riconquista di una dignità in cui ogni uomo possa ritrovare se stesso, tornando a essere partecipe di un grande cambiamento intellettuale e morale. E’ in questa fase preparatoria che le istituzioni si ravvivano, che il cittadino capisce di essere importante, è abbassando i toni che si può di nuovo ascoltare la voce della coscienza, è dialogando senza confini e senza pregiudizi che la verità assume contorni più ampi e autorevoli, è riproponendo una visione ampia e condivisa che la realtà si ravviva e si protende, è tornando a insegnare l’educazione che diventa possibile riscoprire la fierezza e l’orgoglio, la dignità e la possibilità di vivere una vita umanamente vivibile. L’autorità deve tornare a essere autorevole, deve riappropriarsi di una identità ferma e decisa, capace di dimostrare che le regole e i valori sono la base sulla quale prospera una democrazia forte e matura, una democrazia che non ha paura, che ha le idee chiare, che sa davvero quello che vuole, che elabora e modifica senza il timore di essere superata dalla storia, che sa parlare un linguaggio corretto, ma fermo, espressione di una forte maturità locale e universale. La società in cui viviamo ha bisogno di esempi, ha bisogno di capire, di imparare, ma anche di saper rispettare le regole che determinano lo spirito democratico della nazione e del pianeta. In questo passaggio la politica ha responsabilità immense, deve riscoprire quello stile che ha gettato alle ortiche, deve restituire al cittadino la certezza che l’impegno, il rispetto e la serietà siano ancora valori su cui poter contare. Papa Francesco, pur tra mille difficoltà e qualche discutibile enunciazione, s’impegna moltissimo nel rivalutare la bellezza dei doni che abbiamo ricevuto, lo fa con senso profetico e soprattutto con la certezza che il cambiamento non sia da parte di qualcuno, ma da parte di tutti. L’enciclica Laudato Si’ resta risposta profetica a un progresso utopico e incongruente, è il richiamo deciso a un villaggio che ha perso di vista le sue regole e che si dibatte in modo confuso e disorientante tra verità create per confondere l’umana bellezza di uno spirito volto a superiori conferme. Ritrovare la via di un cristianesimo ispirato ai valori del Vangelo è forse la strada più giusta per orientare di nuovo una società agonizzante, vittima in molti casi di un’arroganza senza precedenti e che fatica moltissimo a riconoscersi e a trovare la via d’uscita giusta per ricominciare a credere nella forza riabilitante dell’educazione.
LA CRITICA, UN DIRITTO
La critica è un diritto, ma ogni diritto ha il suo dovere e ogni dovere sottintende regole precise alle quali bisogna attenersi, onde evitare di cadere nel pregiudizio, in una fredda volontà dissolutoria, che tende a sovvertire un ordine, a gettare discredito su chiunque ardisca esporre un pensiero diverso o alternativo. Il vero problema è che esiste una certa tendenza a impedire che la verità possa anche essere un’altra e che proprio per questo non si possa cambiare ciò che sia stato ritenuto inadeguato. La critica si è diffusa rapidamente in virtù di un’estesa imprenditorialità comunicativa, oggi infatti sono molteplici gli strumenti per conoscere o per far passare il pensiero soggettivo, ma non sempre secondo un ordine che preveda il rispetto delle regole che sovrintendono i processi della conoscenza e quelli della comunicazione. L’effetto di una comunicazione esageratamente tecnologica ha inficiato l’aspetto emozionale, riducendo al minimo l’essenza vera della narrazione, abbreviandola, fino a farla diventare elemento di contratta pianificazione sociale. Il passaggio dalla critica della carta stampata a quella molto più estesa e liberistica dello strumento televisivo ha prodotto l’evolversi di una prassi scenica in cui il dato empatico e quello emotivo hanno lasciato il posto a una sfrenata concorrenza di natura espansiva, che non ha più tenuto conto dell’ordine generativo che l’aveva caratterizzata ai suoi inizi. Oggi la critica ha assunto toni e complessità che esulano da qualsiasi ordine, il liberismo è diventato libertinismo, non esistono più limiti a un volgare espressionismo verbale, ciascuno conferisce alla comunicazione la propria identità, che non è mai quella che tiene conto di un benché minimo ordine morale o sociale della prassi comunicativa. La televisione è uno strumento in cui si sommano istanze illiberali e istanze strumentali, perdendo di vista quelli che sono i canoni minimali di una comunicazione democratica che non sia repressiva, ma attenta alla sua fondamentale dimensione pubblica, al suo essere sistema educativo pubblico, capace quindi di sollecitare la forza e l’intraprendenza della comunicazione soggettiva. Ci si dimentica spesso che la narrazione televisiva ha una forte componente collaterale e quindi una naturale potenzialità intrusiva e persuasiva, capace di attivare e di entrare nel sistema pubblico dell’apprendimento e della conoscenza. Per queste ragioni va tutelata e regolarizzata, per queste ragioni si rende necessario creare le condizioni perché la critica ci sia, ma ci sia in una misura adeguata, capace di sviluppare una comprensione più ampia e flessibile, adatta a fornire risposte confacenti e sintoniche rispetto alle necessità di una società che ha bisogno di crescere nella coscienza critica e nella consapevolezza. Troppo spesso la critica resta ancorata a posizioni intimidatorie, che aprono le porte di una conflittualità permanente, ragione prima di una radicale caduta di stile nei rapporti comunicativi all’interno della società. In un consesso supercritico come quello odierno, risulta sempre più difficile e complicato creare le condizioni per un approccio attento alla realtà nella quale viviamo. Riattivare una forma critica costruttiva diventa necessario se si vuole estendere alla popolazione la facoltà di poter entrare direttamente nella prassi, mantenendo fermi quei principi sociali e morali che tutelano l’incolumità del ricevente.
DARE UN SENSO AL TEMPO
Godere della libertà è un dono straordinario, ma una libertà senza senso, senza contenuti, vissuta all’insegna della perdita di tempo prezioso forse non aiuta a crescere, non aiuta soprattutto a dare un senso alla preziosità di ciò che viene riconosciuto e concesso. Essere liberi significa esserne coscienti, capire quanto sia importante poter gestire il tempo, distribuirlo, posizionarlo, avendo ben chiaro quello che possiamo fare e come possiamo farlo. Dare un senso al tempo libero dei giovani, ad esempio, è fondamentale, se si vuole che crescano coscienti di ciò che hanno a disposizione e soprattutto consapevoli che la libertà porti sempre dentro di sé un motivo, un contenuto, un’aspirazione, un desiderio, una rinuncia, un impegno. Per ottenere un buon risultato bisogna che chi ha il compito di educare lo faccia sul serio, senza paura, con coraggio, sapendo che nell’insegnamento c’è il segreto di una società migliore, in cui ciascuno sappia esercitare consapevolmente il proprio ruolo. Di troppa libertà si muore, ci sono giovani che non sanno più trovare uno scopo, dare un senso, stabilire una relazione, vivono una libertà che porta inevitabilmente alla depressione, alla vacuità, alla solitudine, all’incapacità di vivere una vita di relazione, normale. Li vediamo spesso queste giovani vittime del non senso, alle prese con la dipendenza, con l’incapacità di saper disporre della bellezza che portano dentro, immemori dell’educazione familiare, delle raccomandazioni di un papà o di una mamma, li vediamo spesso ai margini della società, alla ricerca di un bene che sfugge loro di mano e che li lascia spesso nell’assenza di desiderio, di umanità, di voglia di vivere. Insegnare è fondamentale, bisogna farlo con amore, ma anche con molta fermezza, credendo in quello che si fa. La dipendenza tecnologica di questi anni ha spento gran parte della ricchezza interiore, ha svuotato i valori della loro sostanza morale, ha lasciato intuire che si possa dimenticare il passato e il presente, per poi prendere atto che una vita senza storia diventi vuota, incapace di regalare emozioni. In questi anni la scuola ha perso la sua identità, si è lasciata condurre dal gioco di una politica che ha perso di vista il bene comune, la necessità di saper fare le giuste distinzioni, di dare a ognuno la responsabilità che gli spetta e che merita, una politica che si è dimenticata di avere il sacrosanto dovere di far valere i meriti delle persone, la loro volontà, la loro capacità di poter essere parte attiva e presente nel complesso gioco della vita morale e civile. Si sono inventate molte cose, i ruoli si sono spesso sovrapposti e contrapposti, lasciando dietro di sé un disorientamento incredibile, in cui tutto o quasi ha perso di consistenza valoriale. Si è spacciata una libertà senza regole, l’idea di avere il mondo tra le mani e di poter vivere senza pensare, sena riflettere, senza immaginare che l’uomo, da solo, non sia nessuno. E’ in questa solitudine esistenziale che occorre dare un senso a chi lo aspetta, a chi non sa cosa significhi vivere nel rispetto di sé e nel rispetto degli altri, è quando il mondo intorno non è più in grado di dare risposte convincenti che bisogna ritrovare un senso, una logica, un modo di vivere che non sia necessariamente distruttivo della propria anima e di quella altrui. La politica non si deve chiudere, tutt’altro, si deve aprire, deve farsi capire, deve ritrovare il senso di quello che fa, deve imparare a recitare il mea culpa senza vergogna, deve rendersi conto che è un’osservata speciale e che le persone sono molto meno ingenue e maldestre di quanto possa immaginare, soprattutto i giovani, che si guardano attorno per capire quale strada intraprendere. In un mondo che ha perso di vista i problemi, quelli veri, come la famiglia, la scuola, l’istruzione, l’autorevolezza, il rispetto, conviene forse fare un passo indietro e riflettere sui propri comportamenti, sui bisogni e sulle necessità della gente, di quella gente che non ha tempo di inseguire le ambizioni personali, perché si sveglia la mattina presto per andare a lavorare, per portare a casa uno stipendio con cui vivere e far vivere. In un paese che ha una estrema necessità di educazione, c’è una parte del mondo adulto che si perde nel labirinto delle strategie, delle ambizioni personali, che insegue miti e chimere, che s’inventa odi, rancori, ricatti, rivalse, mentre dall’altra parte della barricata i giovani non sanno dove sbattere la testa e in molti casi dissipano la loro giovinezza, costretti a espatriare per vedere riconosciuta la propria identità. Viviamo in un mondo che non sa più vedere, osservare, capire, un mondo che preferisce sottacere, sfuggire, chiudere un occhio, far finta di niente, un mondo in cui mancano i punti d’appoggio e dove spesso l’onestà diventa un disvalore, qualcosa che contrasta con l’ambizione e con l’arroganza. La famiglia e la scuola sono un argine sicuro contro ogni tipo di decadenza, ma gli argini hanno continuamente bisogno di essere valorizzati e rinforzati, necessitano di abili manutentori che ne sappiano leggere e intuire le necessità, soprattutto quando il mondo vorrebbe destrutturare, smitizzare, ridurre ai minimi termini. Famiglia e scuola sono state lasciate in disparte anche da chi avrebbe dovuto prenderne le difese, sono state spesso abbandonate a se stesse, sovrastate da varie forme di materialismo, sono state abbandonate al loro destino, per fare spazio a varie forme di arbitrarietà morale e sociale. Nella vecchia società contadina la famiglia svolgeva un ruolo fondamentale anche nel campo dell’educazione, un’educazione essenziale, ma fondamentale, rigida, ma convincente, attenta, ma proattiva, sostegno assoluto della famiglia patriarcale, fondata sul principio della sussidiarietà, dell’impegno reciproco, dove anche i giovani trovavano spazio per dare una mano, per dimostrare la loro forza e il loro coraggio, il loro naturale attaccamento ai valori della famiglia. L’educazione civica nasce e cresce con educatori e famiglie che sanno orientare e indirizzare, che educano i ragazzi a guardarsi attorno e a guardarsi dentro, che dimostrano quanto sia importante saper utilizzare il tempo libero, con forme di divertimento creativo, dove c’è sempre uno spazio per l’assunzione di senso di responsabilità e dove anche il divertimento diventa occasione per crescere, per acquisire coscienza civica, morale, sociale, per far capire che tutto converge verso la formazione di una cultura sociale viva, operativa, dove nulla è lasciato al caso. Per molti giovani la miglior medicina è imparare a crescere, a fare quotidianamente i conti con i problemi di una società spesso distratta e svuotata delle sue linee guida. In questi anni il mondo giovanile è quello che ha sofferto di più, quello che ha pagato la crisi della famiglia, la crisi dello stato, la crisi religiosa in generale, la crisi della scuola, è quello che si è trovato spiazzato, senza valori certi, senza esempi credibili, è quello che si è visto scavalcato dall’economia e dalla finanza, da varie forme di individualismo sfrenato, da arroganze di ogni genere, finendo in molti casi col cercare rimedi temporanei. Ricostruire una società non significa solo tappare buche o erigere templi alle nuove ipocrisie del progresso, ma ricominciare a educare, a richiamare le persone all’assunzione di quel senso di responsabilità che s’identifica con il rispetto delle regole, con un’educazione capace di ricreare la vita interiore, di riflettere e di pensare, la voglia di impegnarsi e di trovare nel sudore e nella fatica la strada vincente per l’affermazione dell’identità e della dignità. Valorizzare i giovani dunque, ma anche saper fare un profondo esame di coscienza, riconciliante con quei valori che contano, che danno il senso della speranza in un mondo che sappia guardare verso il basso se necessario, ma anche verso l’alto, creando quel giusto equilibrio che abbiamo dato in pasto alle utopie. Ritrovare dunque un equilibrio, rimettere al centro la persona, rianimare l’anima, la voglia di fare, credere, creare, inventare, sognare, riconsegnare all’uomo il senso della vita, la passione e l’entusiasmo per le cose belle, quelle che contano sempre, da giovani e da vecchi, quelle che non soffrono le riconversioni e le rottamazioni, perché sono la base su cui la vita si regge. Costruire scuole, costruire spazi per il mondo giovanile, costruire luoghi tranquilli per gli anziani, rivalutare il senso della relazione, costruire ospedali a misura d’uomo, dove una buona parola al momento giusto conti più di tutto il resto. E’ sullo spirito umano che occorre fare un bel restailing, è il cuore che va rivitalizzato e spronato, è la verità che deve tornare a splendere al suo posto. Prima dell’Europa c’è il buon senso comune, quello che affratella tutti gli uomini, che li fa sentire vivi e responsabili, attenti ai luoghi in cui abitano, alle persone con le quali entrano in relazione. E’ nella collaborazione che si costruisce l’unità, è nella vita di relazione che si realizzano gli obiettivi comuni, quelli che cambiano il volto dei nostri paesi e delle nostre città. Ormai l’epoca delle divisioni ideologiche sta tramontando, l’uomo si guarda allo specchio e si rende conto che le parole e le idee hanno bisogno di azioni concrete, di dimostrare che il pianeta è una grande casa comune, alla costruzione della quale ogni cittadino deve dare un prezioso contributo personale. Un eccesso di compatimento e un eccesso di buonismo non portano a nulla di buono, salvano solo la facciata, ma dietro i muri crollano a pezzi e il cemento tradizionale, forse, non basta più.
QUANDO I RUOLI ERANO RUOLI
C’è stato forse un tempo in cui ciascuno aveva il proprio ruolo e lo esercitava, magari non sempre adeguatamente, mettendoci comunque tutta la buona volontà possibile. Le famiglie erano molto presenti, accompagnate da un sistema educativo che toccava un po’ tutti, il senso di responsabilità era piuttosto allargato, anche nelle famiglie povere o in quelle semplici si respiravano buon senso e fermezza. L’educazione era al primo posto. Era abbastanza difficile che la libertà diventasse libero arbitrio, sapeva dove posizionarsi, quale strada prendere, la guerra aveva insegnato moltissimo, soprattutto a riprendersi la fiducia nella natura umana e nella sua capacità di dare un senso compiuto all’esistenza. Il dopoguerra ha rimesso in pista quei valori che sembravano scomparsi nel nulla, come la pace, l’unione, la solidarietà, la collaborazione, l’impegno nel lavoro e nella costruzione di famiglie solide, capaci di riattivare un ordine che mettesse d’accordo tutti, privilegiando il bene di una nazione desiderosa di ricostruirsi. Dopo la violenza, l’invidia, l’antagonismo estremo, le sfide ideologiche e le lotte politiche, il popolo italiano aveva di nuovo capito che un passo avanti andava fatto, ma doveva essere fatto con la determinazione di chi, avendo sperimentato il dramma della guerra, s’impegnava a ristabilire un filo diretto con il senso della misura e con la voglia di risorgere. Si è puntato a una rinascita alla quale hanno collaborato in molti, trasferendo nel cuore della gente comune entusiasmo e passione, voglia di riuscire, di andare oltre le vicissitudini di un destino a tratti aspro e difficile. Nel riavvio tutti ci hanno messo almeno una parte della loro saggezza, chi nella vita comune, chi nell’imprenditoria, chi nelle professioni, chi nello sport, chi nella politica, ognuno si è assunto la propria parte di responsabilità, partendo dalla convinzione che la forza di un paese stesse nella sua capacità di unirsi, di rafforzare quelle linee guida che fungevano da struttura portante. Le diversità hanno fatto capire che l’osservatorio della libertà ha ampi spazi di caratterizzazione e che è dall’impegno di ognuno che emerge la forza riabilitante di un paese che ha sofferto per troppo tempo una sovranità limitata e illiberale. Chi è stato giovane negli anni del dopoguerra sa perfettamente quanto fosse importante avere un’idea chiara della rinascita e soprattutto quanto fosse determinante mettere insieme le forze, tralasciando antagonismi e diversità irrisolte. Studio e lavoro sono stati al centro della rinascita, grazie a una classe imprenditoriale consapevole del ruolo fondamentale che il lavoro avrebbe esercitato sulla costituzione di un benessere morale, sociale, politico, allargato a tutti. Occorre non trascurare il grande apporto della chiesa cattolica, sia sul piano strettamente religioso, ma anche su quello sociale ed educativo, una chiesa molto impegnata a costruire ciò che un eccesso di antagonismo aveva distrutto. L’ora di religione a scuola, l’ora di catechismo, un impegno educativo profuso con grande passione da sacerdoti fermi, ma anche molto attenti all’interpretazione dei tempi e alla capacità di saper orientare positivamente il costume con le sue risorse, ha contribuito a sviluppare una coscienza critica più ampia e profonda, capace di entrare in contatto con un mondo in fermento, pronto a raccogliere le fibrillazioni positive di chi, con impegno e abnegazione, cercava di rafforzare anche solo l’idea di mettersi al servizio di una nuova avventura sociale. La scuola, in modo particolare, ha cercato di sollecitare una visione positiva della famiglia, della società civile e dello stato, grazie a una classe docente cosciente dell’importanza di valori come libertà, rispetto, volontà, impegno, disciplina. La disciplina ha avuto un ruolo fondamentale nella crescita di una comunità capace di attivare il proprio senso di responsabilità, in famiglia e a scuola le regole del buon vivere erano fortemente presenti sia nella narrazione scritta sia in quella verbale, tutto si basava sull’educazione e sulla sua capacità di frenare e sollecitare, favorendo l’assunzione di quelle regole che erano il sale della democrazia post-bellica, fortemente presente nella costituzione italiana. Tra scuola e famiglia il rapporto era stretto, non c’era diffidenza ma fiducia, non c’era antagonismo ma consapevolezza, non sovrapposizione ma rispetto dei ruoli, la società procedeva indipendente, ma orientata in modo deciso verso una ripresa generale, passando attraverso obiettivi comuni, capaci di unire e di solidarizzare, desiderosa di raggiungere un benessere medio, capace di migliorare sia la condizione economica che quella organizzativa in genere. Nell’Italia del dopoguerra esistevano punti vista e valori diversi, ma c’era un obiettivo comune capace di annodare, orientare, responsabilizzare, alla base di ogni percorso c’era una consapevolezza popolare, l’idea che con l’impegno e la volontà si potesse restituire al paese la sua dignità. Il benessere arrivava da un sacrificio generale e si metteva a disposizione, non c’erano rivalse o spregiudicatezze, la vita era al centro e la voglia di farcela anche. La ricchezza stava soprattutto nella misura di una felicità quotidiana, pronta a stemperare sovrapposizioni o divisioni, le ideologie alimentavano in qualche caso la diversità, ma sollecitavano la voglia di pensare, di ragionare, di discutere, di trovare soluzioni sempre nuove e sempre diverse. La società era in continuo movimento, in molti casi selezionava, premiava, distribuiva, ma lo faceva sempre con una consapevolezza di fondo, quella di migliorare la condizione sociale di tutti, di animare il lavoro, di sudare, faticare, di giorno o di notte. Non c’erano spazi vuoti, ogni vuoto veniva riempito da una volontà comune, quella di contribuire alla resurrezione individuale e a quella collettiva. Il senso della comunità era molto presente e anche molto attivo, forse la guerra ne aveva amplificato il senso, aveva fatto capire alla gente che insieme si poteva uscire dalla povertà e dalle ristrettezze. Ognuno esercitava il proprio ruolo con molta serietà e professionalità, s’imparava soffrendo, era vietato lamentarsi o chiedere troppo, la verità aveva i suoi momenti e le sue misure. Il genitore faceva il genitore e cercava di farlo al meglio, compatibilmente con la fatica e l’abnegazione, la mamma era molto presente nella crescita dei figli e i nonni facevano la loro parte, una parte fondamentale, fatta di racconti, poesie, narrazioni, esempi, aiuti morali, sociali, economici. I religiosi impegnavano a fondo le loro risorse, occupando la parte più importante del sistema educativo, con loro imparavi a giocare, a fare sport, a pregare, a stare insieme ai tuoi amici, imparavi che il mondo non era solo quello del materialismo di strada, ma puntava anche su una visione più ampia e più alta della vita, ristabilendo ogni volta un equilibrio e un’armonia, in cui appariva quasi per incanto la presenza di figure capaci di allargare il respiro, lasciando anche il campo a una ricerca interiore capace di andare oltre, lasciando scoprire la bellezza della creazione e del suo creatore. La scuola era molto esigente, con i suoi voti e i suoi giudizi non lasciava spazi al qualunquismo o alla superficialità, ma s’imponeva, imponeva la sua autorità educativa e lo faceva senza il pericolo di essere smentita da un chicchessia qualunque. Il professore era il professore, non si poteva mettere in discussione il suo verbo, bisognava fidarsi, avere fiducia e amare che era investito del sacro fuoco dell’insegnamento educativo. In giro non vedevi giovani che urlavano, che bestemmiavano, che oltraggiavano o che mancavano di rispetto e soprattutto l’oratorio era un luogo dove la religione diventava coscienza educativa da parte di tutti. C’erano ambiti in cui non si poteva fare quello che si voleva, prima dei diritti venivano i doveri, prima del premio c’erano la fatica e il sudore, l’idea di poter diventare migliori, prima di ottenere bisognava dare e soprattutto la disciplina era sempre al primo posto. Si trattava di una disciplina che non ammetteva rimbrotti o interferenze, era il perno attorno al quale doveva navigare la moralità comune. Oggi siamo molto lontani dall’essere un mondo coeso, ognuno fa quello che vuole, l’autorità è andata via via dileguandosi, tutti vogliono comandare e il problema vero è che spesso le persone, soprattutto i giovani, credono di poter fare tutto e il contrario di tutto. Dalla crisi del potere individuale nasce e si diffonde l’anarchia, la non consapevolezza, l’idea che la libertà sia un vuoto senza sostanza e che non esistano freni inibitori allo strapotere dell’arroganza individuale o di gruppo. Riscattare l’autorità significa rimettere sul campo la certezza che nulla avviene per caso e che ogni parola, azione, fatto o gesto hanno alle loro spalle un percorso lungo, faticoso, impegnativo, mirato alla presa di coscienza di essere e di poter diventare cittadini autorevoli, decisi a rappresentare con onore l’identità di un paese conosciuto nel mondo per la sua riservatezza e la sua bellezza.
I DOCENTI, UNA GRANDE RISORSA
Il maestro e la maestra per noi alunni erano tutto, tutto quello che umanamente parlando si potrebbe immaginare, erano il nostro punto di appoggio, una voce che arrivava dritta al cuore senza dover per passare per tratturi incolti, l’incoraggiamento quotidiano, erano le persone che ci insegnavano le discipline, le canzoni, la musica, la storia, che recitavano poesie cariche di buon senso e di profonda umanità, erano coloro che ci prendevano da parte e che spendevano sempre una parola in più per farci capire la forza e la bellezza di un sentimento, l’importanza di essere attenti, studiosi, impegnati, rispettosi, onesti, capaci di chiedere scusa e di essere disciplinati, di fare sempre il proprio dovere. La scuola era l’approdo giornaliero delle nostre aspirazioni e anche quando capitava di essere puniti con una nota o con una bacchettata, all’impulso iniziale subentrava il senso di un ordine di fronte al quale eravamo tutti uguali, docenti e alunni, a nessuno era dato di prevaricare sull’altro, ciascuno doveva avere ben chiaro che cosa doveva fare e come doveva comportarsi. Erano i tempi della scuola della disciplina, quella del voto di condotta, quella in cui il docente faceva il docente e il genitore faceva il genitore, una scuola in cui ciascuno aveva un ruolo preciso e in cui bisognava rigare diritto, studiando le materie e rispettando compagni e docenti. Una scuola normale dunque, dove l’educazione godeva di un ruolo fondamentale e dove s’imparava sapendo che il rispetto era la condizione fondamentale. Era anche una scuola molto attenta, capace di regalare un sorriso e un aiuto, sempre pronta a dimostrare la bellezza di un miglioramento, una scuola pronta ad affrontare il difficile cammino dei giovani, creando le giuste coordinate. Il bullismo? Qualcosa del genere poteva anche profilarsi, ma il sistema era molto coeso e soprattutto sapeva sempre che cosa opporre, non si poneva troppi dubbi, non cercava sempre di scagionare o di indulgere, la disciplina aveva un ruolo preciso e tutti ne erano responsabili, ogni componente aveva il proprio ruolo e lo doveva esercitare senza forme di esacerbato buonismo. L’insegnante è una figura splendida, è grazie a lui se la vita comunitaria diventa sempre un pochino di più comunità, è grazie a lui se i giovani diventano adulti con la coscienza di chi sa esattamente quali siano i propri diritti e i propri doveri, è grazie all’insegnante se una comunità si attrezza per creare forme di bene, di legalità e di giustizia, è grazie alla scuola se il cittadino diventa alfiere della comunità sociale, culturale e politica nella quale vive.
INIZIA LA SCUOLA, UN NUOVO MONDO EDUCATIVO SI APRE
Quando iniziava la scuola sentivamo un brivido nelle gambe, il cuore batteva più forte, mamma e papà erano inquieti, attenti, cercavano in tutti i modi di rendere meno ansiosa l’attesa stirando, preparando, finivano le vacanze e iniziava l’impegno quello vero, soggetto al giudizio severo dell’insegnante. L’insegnante era un mito, lo era anche se era severo, con una voce attenta e solenne, sempre pronta a riprendere, ma anche ad amare con la dovuta passione. Era la nostra guida quotidiana. Con lui trascorrevamo mattinate intere, lo ascoltavamo, qualche volta lo facevamo arrabbiare, ma sempre evitando l’esagerazione. Il suo giudizio era decisivo, non c’era genitore che non lo accettasse, il suo ruolo era indiscusso sempre, nessuno avrebbe osato mettere in discussione una parola, un’azione, un gesto del maestro o della maestra, neppure la punizione era soggetta a critiche, anche quando poteva essere scambiata per una forma di violenza. L’insegnante era un mito perché sapeva farsi rispettare e lo faceva dall’alto della sua personalità, una personalità viva, audace, capace di affabulare anche i più reattivi e i più scontrosi, sempre pronto a interagire e a relazionare con ampiezza di vedute, con l’arguzia tipica di chi sa trasformare il male in una straordinaria occasione di bene. L’insegnante era quasi sempre ben vestito, aveva un modo di porsi leale, non amava le smancerie, le parole inutili, cercava sempre di correre sul filo della correttezza e dell’educazione. I genitori amavano gli insegnanti, affidavano loro i propri figli con grande fiducia, sapevano di poter contare su quelle splendide figure che sapevano trasformare l’inquietudine giovanile in curiosità, voglia di crescere, di apprendere, di diventare grandi e di poter concorrere alla crescita della famiglia, della comunità e del paese. Non c’era confidenza, i ruoli erano molto ben definiti e non era possibile andare oltre, ciascuno sapeva esattamente che cosa doveva fare e che cosa doveva dire, ma soprattutto sapeva come fare e come dire, che tipo di atteggiamento assumere di fronte a una persona più grande e con un ruolo ben determinato. Non potevi dare del tu, non te lo saresti neanche sognato, perché a casa prima di tutto ti avevano fatto capire, con le buone o con le cattive, che l’educazione era il perno di una società che si definiva civile e che bisognava pertanto rispettare alcune regole fondamentali. Le regole non erano servili imposizioni o forme di assolutismo impositivo, erano modi stabiliti insieme per rendere più armonica ed equilibrata la vita stessa delle persone. Certo c’è sempre stato il prevaricatore di turno, ma la società era coesa, unita, solidale, non permetteva che si andasse oltre quel buono che rappresentava il senso vero e profondo di una comunità. Il genitore non si metteva mai contro l’insegnante, sapeva perfettamente che ciascuno aveva il proprio ruolo e che doveva esercitarlo. La decisione dell’insegnante era inappellabile, anche quando metteva in crisi equilibri che sembravano inossidabili. Tutti cercavano di concorrere al bene comune, ciascuno con le proprie forze, con molta determinazione, l’obiettivo era infatti una società consapevole, capace di capire che cosa fosse importante e che cosa invece fosse inopportuno e inadeguato. Pur nella sua riconosciuta prassi istituzionale, l’insegnante era un perfetto conoscitore dell’animo umano, sapeva come e dove posizionarsi, quali parole e come offrirle all’interlocutore di turno, sapeva molto bene come rimettere in moto un motore spento, privato della sua naturale propensione movimentista. Conoscere l’animo umano porta vantaggi insperati, proprio quando sembra che l’incomprensione superi i livelli di guardia, aiuta moltissimo a scrutare nel cuore per capire quale intervento possa più giusto per rimettere le cose a posto. E chi più dell’insegnante sa riconoscere una necessità, un bisogno, un’inquietudine o una crisi, chi più dell’insegnante che vive quotidianamente con i suoi allievi sa riconoscerne i loro bisogni e le loro necessità?Quante volte li abbiamo fatti arrabbiare e quante volte, nonostante tutto, ci hanno perdonato, senza mai scomodare inutili forme di pietismo politico. I giovani amano la fermezza, non vogliono essere compatiti o considerati per quello che non sono, desiderano verità e lealtà, un atteggiamento vero, capace di far capire da che parte stiano di casa la giustizia e la legalità. Insegnare non è facile. Non è facile confrontarsi ogni mattina con venti o trenta ragazzi pieni di energia, sempre pronti ad alzare una mano, a sollecitare una risposta, a capire di che pasta sia fatto quel mondo che l’insegnante cerca di presentare. La scuola è una grande risposta di umanità, un’immensa ricchezza di valori e di proposte educative, è quel mondo in più che aiuta a stare meglio nel mondo, scoprendo strada facendo di quali ricchezze sia stato dotato l’essere umano. Chi diventa grande in fretta non dimentica mai la scuola, la ricorda con affetto, anche quando magari non è stata quella che avrebbe voluto. C’è sempre un momento in cui la scuola torna a diventare famiglia e l’insegnante veste i panni della mamma o del papà, per veicolare meglio un messaggio educativo, in fondo l’educazione, pur nelle sue diversità, è una storia e come ogni storia è anche somma di momenti e di verità racchiusi in un cammino piuttosto lungo. Ricordare i nostri insegnanti è un dovere, è un dovere che riguarda tutti, perché se una comunità impara le virtù della coesione, del rispetto, dell’armonia, dell’educazione, lo deve anche a tutti quei docenti, uomini e donne, che con tanta passione e con tanto amore hanno cercato di concorrere alla sua crescita umana, morale, sociale, culturale. Dunque torniamo a scuola con lo spirito giusto, con la voglia di apprendere e di capire e di mettere in pratica quegli insegnamenti che i nostri docenti, insieme alle famiglie, sanno trasmettere, pensando soprattutto al bene dei giovani e della comunità nella quale vivono.
SE L’EDUCAZIONE NON RICONQUISTA LA PROPRIA ANIMA, DOVE ANDREMO A FINIRE?
Nell’educazione c’è una grande anima, capace di creare momenti di assoluta armonia in un mondo che non sa più guardarsi attorno e, soprattutto, guardarsi dentro. Ritrovare l’anima è rimettere in campo l’essenza stessa della vita, l’aristocratica bellezza di tutto ciò che ci accompagna durante il viaggio, ritrovare la gioia, la consapevolezza di chi siamo, di quale destino ci attenda, di come fare per riempire di umanità ritrovata il lungo o breve percorso che ci è stato assegnato. Tornare all’educazione è ritrovare la consapevolezza che qualcosa di profondamente umano si sia rotto nelle relazioni individuali e in quelle sociali e che proprio per questo l’umanità abbia un assoluto bisogno di riconciliarsi, di scoprire qualcosa che la sollevi dalle brutture, dai conflitti, dalle bassezze e dalle illusioni che la coprono spesso di vergogna e di ridicolo. Guardarsi dentro, interrogarsi, circumnavigare e investigare l’interiorità, mettersi alla prova, ritrovare i patti e i giuramenti che abbiamo pronunciato, avere il coraggio di un profondo esame di coscienza alla ricerca di che cosa ci sia sfuggito e che cosa non riusciamo più a ritrovare, pur avendo a disposizione una miriade di mezzi e strumenti che si sono saldamente interposti nella nostra cultura, illudendola che la vita sarebbe stata più facile, più vera, più giusta, quindi più capace di dare risposte, senza forse immaginare che le risposte richiedono tempo e meditazione profonda, riflessione e coraggio, pazienza e molta preparazione. L’educazione è il sale della vita, è la capacità di una società di imparare a conoscersi e interagire, è il collante che armonizza la vita comune, lo specchio di chi siamo realmente e di che cosa sia utile pensare e fare per vivere meglio, il punto di arrivo e quello di partenza, la compagna che ci permette di ritrovare la pace profonda, quella che aiuta a trovare la via quando tutto sembra crollare sotto i colpi di un consumismo prevaricante e intollerante. Come si fa a incontrare di nuovo l’educazione? Basta camminare a piedi dentro una città o un paese, basta saper ascoltare, osservare senza lasciarsi distrarre, basta ritrovare la voce del cuore, quella del silenzio, delle emozioni, basta forse mantenere viva la voglia di discutere con se stessi e con il prossimo, di ritrovare tesori che sono passati di moda troppo in fretta e che in molti casi si sono lasciati abbindolare da verità non verità, dall’idea che si potesse risolvere tutto con atti politici o amministrativi, con una libertà scambiata per anarchia, dimenticando che la natura umana è, proprio per sua natura, animata da ricerca, studio, comunicazione, dialogo, amore profondo per tutto ciò che vibra di curiosità ed emozione. Aprire l’animo umano alla collaborazione e alla solidarietà, ritrovare l’anima della famiglia e farla fruttificare, così come la forza e la bellezza della scuola, sicuri che una buona educazione aiuti a vivere meglio il tempo della nostra vita, può essere una via praticabile per tentare un riavvicinamento a ciò che fa riflettere, che crea lo spazio e il tempo di una riconquista morale e sociale. Amare il proprio lavoro, svolgerlo con tutta la dedizione possibile, mettere sempre l’anima nelle cose che si fanno, senza lasciarsi intimidire dalla cattiveria, dare il proprio contributo di forza e di coraggio, senza lasciarsi sopraffare o intimidire da chi ci vorrebbe succubi e impotenti. Quante volte abbiamo dovuto soffrire a causa della nostra coerenza? Ogni volta, magari soffrendo, abbiamo però sempre ritrovato quell’anima che ci eravamo scordati di avere, le abbiamo assegnato con onore la sua parte, ritenendola più che mai fondamentale nella nostra rinascita, abbiamo dimostrato che la vita è vita quando persegue con dedizione e onestà intellettuale la propria corsa, senza preoccuparsi troppo di chi crede di avere il mondo tra le mani, costringendo l’altro a piegarsi alle proprie velleità, la verità non sta nell’ignoranza, ma nella conoscenza, nello studio, nell’applicazione, nelle parole di educatori saggi, capaci di riconsegnare all’anima la sua parte pensante, quella che permette agli umani di diventare migliori, di capire i propri errori, di tornare a essere capaci di distinguere il bene dal male, la legalità dall’illegalità, il significato vero e profondo della vita umana. Quante volte l’essere stati onesti con noi stessi e con il prossimo ci ha procurato insolenze o vili affronti, senza però aver mai potuto scalfire quella cultura del pensiero, della parola e del fare, capace di donare in silenzio, senza mai cedere alle lusinghe di pensieri o idee costruiti nel laboratorio dell’interesse personale, dell’invidia, del rancore, della vendetta. Chi è stato educato è un grande fortunato, chi ha educato con amore e determinazione è degno di grande riconoscenza, chi non ha fatto il proprio dovere o lo ha fatto inseguendo usi e consumi di natura utilitaristica dovrebbe forse fare un profondo esame di coscienza, nella vita c’è sempre un rimedio per tutto, non esiste errore che non si possa correggere, non esiste persona che non possa essere riamata, la vita è grande perché concede sempre una riprova, offre sempre l’opportunità di poter cambiare, costruire, mettendosi in ascolta degli altri con reale altruismo. E’ triste constatare come in molti casi l’educazione sia stata espropriata dalle nostre famiglie, dal nostro sistema sociale, dalla scuola, gettata in pasto alle negatività quotidiane e a ogni sorta di violazione. Forse sarebbe il caso di ripensare il senso della vita, quali siano gl’interrogativi primari, le incertezze e le insicurezze, riconducendo l’animo umano a più miti considerazioni, rimettendo in campo l’assoluta bellezza di poter essere parte viva di quel grandissimo mistero che la vita stessa ci propone nelle sue straordinarie sfumature. Gl’ interrogativi sono tanti, ma è sulle risposte che si costruisce o si distrugge.
PIU’ EDUCAZIONE
In un momento dominato da schizofreniche ambizioni, da varie forme di megalomania, da illimitate arroganze e perversioni, dall’idea che la ricchezza stia solo da una parte, conviene forse rientrare, per cercare di capire chi sia realmente l’essere umano, cosa sia la vita, che cosa vogliamo fare, quali siano i rapporti che ci uniscono e che tipo di relazioni vogliamo stabilire. Dopo aver corso in modo esagerato, senza prendere fiato, forse conviene fermarsi un attimo e ricominciare a pensare, cercando di trovare le risposte più adatte da dare a una vita che spesso perde di vista le sue coordinate essenziali. Il problema dei migranti, ad esempio, ha contribuito in modo decisivo a farci riflettere su temi e problemi che avevamo lasciato sui testi di storia o sulle pagine dei giornali, ci ha di nuovo messo nella condizione di ricominciare a studiare, a capire, a sfogliare quel libro della storia umana che avevamo riposto con cura nella nostra biblioteca, pensando che il presente e il futuro fossero meglio del passato. E’ nella natura umana ricercare continuamente una tranquillità nella quale consolidare la propria posizione, si tratta di una vocazione quasi naturale, che esclude almeno apparentemente l’idea che il percorso possa subire contraccolpi. Il fenomeno migratorio ci ha di nuovo messo davanti alla nostra coscienza, ci ha riproposto alcuni dei temi cardine della storia umana, quello delle diversità, delle culture, delle proprietà, della distribuzione delle ricchezze, delle migrazioni, delle diversità tra i ricchi e i poveri, tra coloro che hanno troppo e coloro che non hanno nulla. Si tratta dunque di una coscienza ciclica delle cose, che sollecita la condizione umana a ricercare sempre, a non ritenersi mai troppo realizzata. Si tratta in fondo della bellezza della vita, che per essere apprezzata richiede una determinazione costante che la rimetta sempre al centro, soprattutto quando le condizioni sembrano declinare verso forme varie forme di materialismo estremo. Il materialismo si cela in molti casi dietro la maschera della lotta sociale, delle rivoluzioni, delle ideologie, dei partiti, dei movimenti, delle filosofie reazionarie, si presenta come soluzione, come valutazione, come forma di contrasto e in molti casi assume le sembianze di un leader innovatore, capace di mettere al sicuro l’uomo dall’ironia di una sorte troppo spesso precaria. Il materialismo si determina come forza scientifica, svestendo l’umanità della sua vocazione morale e spirituale. E’ successo spesso nella storia che le parti siano entrate in conflitto tra loro, creando mondi contrapposti, incapaci di incontrarsi su terreni meno granitici e argillosi. In molti casi il materialismo ha avuto il sopravvento sulla vocazione morale, culturale, creando lotte, guerre, incomprensioni varie. Riattivare o rimettere in piedi dicotomie esasperate non è mai stata un’impresa semplice anzi, in molti casi si è rivelata impossibile da attuarsi. C’è però una via d’uscita ai problemi che ci mettono in crisi, che sconvolgono le nostre tranquillità ed è forse quello di un’educazione più ampia, più reale, più congeniale, che sappia prevenire e organizzare, che educhi ad affrontare i problemi per quelli che sono, nella loro storica necessità sociale. E’ in questa direzione che siamo poco preparati, che non siamo stati costituzionalizzati abbastanza, non siamo stati orientati a esplorare quel futuro che sorprende e bastona, dimostrando i limiti di una civiltà che si è avvitata, pensando che fosse la soluzione migliore per non interrompere un sogno durato molti anni.
PENSIERI SULL’EDUCAZIONE
Che tipo di educazione potrebbe essere quella ideale? E’ molto difficile dirlo, perché non esiste un’educazione ideale al punto da essere universalmente riconosciuta e rispettata, ma esiste l’educazione come fonte a cui attingere per migliorare le condizioni di salute di una comunità, piccola o grande che sia. In che modo? Definendo una linea di condotta comune, di cui tutte le agenzie educative si riconoscano responsabili. Uno dei problemi maggiori al riguardo dipende proprio dal fatto che ciascuno tende ad applicare una propria visione, pensando che sia la migliore di quelle possibili. I contrasti e gli antagonismi che caratterizzano il nostro tempo dipendono dall’incapacità o dalla non volontà di creare linee di condotta comuni sulle quali appoggiare un sistema di confronto e di dibattito educativo efficace. Viviamo il tempo di un assolutismo personalizzato in cui ci si rifugia e ci si raccoglie ogniqualvolta vediamo messe in pericolo le nostre presunte certezze. Ci siamo costruiti un fortilizio dentro al quale nessuno può accedere, salvo incorrere nelle ritorsioni di turno. E’ in questo individualismo che si consuma l’educazione civica generale, quella che dovrebbe risanare l’ambiente, riconsegnando a ognuno il proprio livello di responsabilità. Se parli con dei cittadini ti diranno quali secondo loro dovrebbero essere le cose giuste da fare per migliorare il sistema educativo, ma il problema vero è che ciascuno rivendica una propria leadership in merito, nessuno accetta di recedere per accogliere o mettersi in discussione o cercare di comprendere la necessità di coordinarsi e collaborare per agire in modo sintonico con gli altri. Ciascuno rivendica la propria verità e la ritiene sacrosanta. Il punto è che spesso ci trova di fronte a un fuoco di sbarramento oltre il quale è impossibile andare. Dunque si tratta di ricominciare? E da dove? Due potrebbero essere le soluzioni o entrare nella convinzione dell’utilità di un sistema di educazione permanente obbligatoria per tutti, grandi e piccoli o iniziare dalla scuola primaria con iniziative mirate, trovando qualche éscamotage per chi ha ormai raggiunto la maggiore età. Ritrovare il senso di un’educazione comunitaria è fondamentale per dare senso a quei principi e a quei valori che vanno oltre i personalismi, i punti di vista o le errate interpretazioni, perché la società ne ha un estremo bisogno, non può più aspettare. Ricreare fiducia e sicurezza in un sistema dir regole comunitarie riconosciute è importantissimo, ma per fare questo le istituzioni, insieme ai cittadini, devono prendere in mano le redini, dimostrando che l’autorità, quando è positiva, va oltre il sistema delle convenienze individuali e che ognuno deve fare la propria parte, in relazione ai compiti che ha ricevuto. Un’educazione alla portata di tutti inizia dalle piccole cose, quelle che costituiscono i pilastri portanti di una comunità. E’ lavorando sulle piccole cose che si costruiscono le grandi, come il rispetto, ad esempio. Sbaglia chi pensa che un cambiamento in meglio non ci possa essere, perché la gente è molto più attenta e ricettiva di quando non si creda, certo bisogna fare in fretta e soprattutto bisogna dimostrare che si è coerenti con quello che si dice, puntando decisamente su una responsabile convergenza. In una società dove i poveri sono sempre di più è necessario ricordarsi che c’è chi sta peggio di noi e che servire diventa quindi un dovere. Il servizio non è sottomissione e neppure subalternità o passività, ma forma responsabile di donazione personale a chi ha bisogno. Certo una società va preparata al servizio fin dagli inizi, dalla famiglia e dalla scuola, con un’attenta e accurata opera di insegnamento e di aggiornamento costante. Occorre forse entrare in una logica nuova, dove quello che conta non è ciò che riceviamo per quello che facciamo, non è l’aspettarsi sempre un premio o una ricompensa, ma sapere che quello che facciamo è un dovere che dobbiamo a noi stessi e alla comunità nella quale abbiamo avuto la fortuna di nascere e di crescere. Fare senza aspettarsi la ricompensa è la forma più elevata di attività produttiva mirata alla crescita di una comunità meno vincolata ai propri interessi e più attenta ai bisogni e alle necessità di un genere umano sempre più in difficoltà. In questi momenti in cui l’educazione viene insegnata poco e male, e spesso non viene accettata, è forse il caso di creare una vera e propria task force educativa, capace affrontare e risolvere tutti quei problemi che rischiano di creare incomprensioni profonde tra il mondo dei giovani e quello degli adulti.